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A B C D E F G H I L M N O P Q R S T U V Z
Manfredi William “Elio” (1915-1945)
Vice comandante della 284° Brigata Fiamme Verdi “Italo”, caduto in combattimento contro i tedeschi nelle vicinanze del Monte della Castagna (Toano) il primo di aprile 1945. Medaglia d’argento al valor militare alla memoria.
Manfredi: i fratelli Alfeo, Gino, Aldino, Guglielmo ed il padre Virginio
Quella dei Manfredi di Villa Sesso era una famiglia di mezzadri molto numerosa, che comprendeva oltre al padre Virginio ed alla madre Gilioli Maria, i sei figli Attilio, Tito, Alfeo, Aldino, Guglielmo e Gino. Nessuno dei fratelli aveva aderito al partito fascista, verso il quale tutta la famiglia mantenne fin dagli inizi una forte ostilità.
Dopo l’8 settembre 1943, con il ritorno a casa di quattro figli precedentemente richiamati alle armi, i Manfredi si resero immediatamente utili nel lavoro “paramilitare”. Raccoglievano viveri e materiale per le primissime formazioni partigiane, assistevano e nascondevano i perseguitati politici, facevano da guida ai nuclei delle reclute partigiane nel loro viaggio verso l’Appennino. Fu così che casa Manfredi divenne una delle basi più solide della organizzazione, dove si riunirono quasi giornalmente i dirigenti dell’Intendenza, i componenti del Comando Piazza e del C.L.N. Provinciale. Il martirio di questa eroica famiglia ebbe inizio il 17 dicembre 1944 con la fucilazione di un primo figlio, Alfeo, la cui unica colpa fu quella di essere stato sorpreso ad ascoltare la radio nella casa di un amico con altri tre compagni. Ma per i fascisti essi “erano in possesso di armi e di manifesti sovversivi pronti per l’affissione”. Accuse ovviamente false, che i ragazzi negarono dopo essere stati arrestati, ma per questo vennero percossi a sangue al punto tale di spezzare le gambe ad alcuni di loro; ma la loro sorte era ormai segnata e così vennero fucilati. Capeggiati dal maggiore Attilio Tesei, famigerato torturatore assassino, i fascisti fecero irruzione a casa Manfredi soltanto tre giorni dopo, di mattino presto, accolti da Gino, già in piedi per curare la stalla, il quale venne immediatamente ammanettato e brutalmente percosso. Conclusa la retata, papà Virginio ed i tre figli Gino, Guglielmo e Aldino vennero caricati su un camioncino e condotti alla ormai ex cooperativa di Sesso per estorcere loro le prime “spontanee” confessioni. Nei locali della cooperativa uno dei vigliacchi torturatori, tale Zanichelli Nello, si fece consegnare dal gestore un ferro da stiro ed un coltello, con i quali si accanì ferocemente sul povero Gino, probabilmente già sospettato. Questi venne bastonato ed ormai certo di non uscir vivo dalle mani dei suoi carnefici, prese su di sé ogni responsabilità, nel tentativo di salvare la vita del padre e dei fratelli. Ma a nulla valse il suo sacrificio. La tragedia volgeva al suo epilogo, i fascisti volevano a tutti i costi un massacro: colpevoli o no, avrebbero fucilato almeno 60 persone, poi concordando con il comando tedesco che gli uccisi fossero 13.
Verso le 10 del mattino i condannati vennero portati fuori dai locali della cooperativa: Gino Manfredi aveva un braccio spezzato, i piedi fasciati a causa delle ustioni praticate con il ferro da stiro ed il volto coperto dai lividi. Il vecchio Virginio, quando vide Gino completamente sfigurato dalle torture e rendendosi conto che Guglielmo e Aldino erano inclusi nel gruppo dei condannati a morte, volle seguirli nella atroce sorte. Sul luogo dell’esecuzione fece più volte la spola tra i suoi ragazzi ed i fascisti, chiedendo che fosse risparmiata la vita ad almeno qualcuno dei figli, ma quando fu chiaro che tutto era inutile volle morire con loro, crivellato dai colpi dei traditori fascisti. Quattordici furono le vittime del 20 dicembre. Un tale barbaro eccidio consumato così a sangue freddo, fece tremare i polsi anche agli stessi fascisti, che inizialmente rifiutarono di far parte del plotone d’esecuzione e soltanto l’intervento del vile Tesei, con tanto di pistola in pugno, li costrinse a completare l’orrendo omicidio.
Pasquale Marconi (1898 -1972)
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Mazzieri Rosina “Peter” (1891 – 1948)
Viveva con il marito Pietro Dall’Argine in un piccolo podere fuori mano nel comune di Poviglio, la loro casa di via D’Este fu meta di parecchi partigiani, tra i quali Licinio Tedeschi e rifugio di sbandati dopo l’8 settembre 1943; in seguito furono ospiti di Rosina anche russi, inglesi, americani e uomini di altre nazionalità.
Con l’aiuto di una fascista locale, una sera di febbraio del 1945 i fascisti di Poviglio irruppero nella casa di Rosina, dove venne presa a calci e buttata da un angolo all’altro della cucina, mentre al marito picchiarono sulle unghie dei piedi con un martello fino a farle saltare.
Dopo aver incendiato la casa, i due vennero portati nella locale caserma della milizia e lì interrogati dal tenente Neri della brigata nera e percossi a sangue.
Scampata al primo interrogatorio, la donna era coperta di ecchimosi e sulla fronte le mancava un lembo di pelle e capelli, strappatole selvaggiamente dai suoi carcerieri, inoltre le venne fatta bere acqua salata nella quale prima avevano sputato a turno i militi fascisti. Durante la notte Rosina e Pietro tentarono la fuga legando insieme delle lenzuola e Rosina volle che fosse proprio il marito ad andarsene per primo, poiché temeva che non avrebbe resistito ancora per molto agli interrogatori degli aguzzini neri. Così Pietro uscì dalla finestra ma, fatti alcuni metri, la fune improvvisamente si ruppe, impedendo a mamma Rosa di fuggire con il suo compagno. Il mattino seguente, accortosi della fuga di Pietro, il tenente Neri sfogò la sua ira bestiale sulla povera donna, ordinando altre torture ed una nuova razione di acqua salata. Rosina venne percossa brutalmente sul ventre con pesanti catene di ferro, gli occhi ormai ridotti a due sottili fessure, erano nascosti dal gonfiore e dalle tumefazioni, ricoperti per intero da macchie violacee sfumate di giallo.
Rimase in carcere fino al giorno della Liberazione e nonostante l’accanimento dei fascisti e le continue violenze subite, lo spirito di mamma Rosa non venne affatto scalfito, tanto da confortare una staffetta, insieme a lei incarcerata, con queste parole: “Non aver paura che faccia i vostri nomi, se ho taciuto finora, con quello che mi hanno fatto, saprò tacere anche in seguito. Il movimento partigiano deve continuare fino alla sconfitta di questi sporchi fascisti”.
Rosina Mazzieri con le membra rovinate ed il suo fisico ormai sfinito, nonostante le cure prodigate dai medici, terminò la sua vita di martire il 10 marzo 1948, nemmeno tre anni dopo la Liberazione.
Montanari Afro “Bill” (1920 – 2009)
Afro Montanari nato a Novellara (RE) 20/03/1920 – Deceduto a Fabbrico (RE) il 24/02/2009, artigiano e pittore.
La sua posizione militare all’8 Settembre del 1943 era alla scuola Paracadutisti di Viterbo, e aveva il grado di Caporale maggiore.
Dal 15/2/1945 e fino alla liberazione partecipò in modo attivo alla resistenza reggiana, col nome di battaglia “Bill”.
Fervente antifascista, fu membro dell’organizzazione comunista clandestina. Militò nella 77 B.ta SAP partecipando alla battaglia di Fosdondo a fianco del suo comandante Germano Nicolini, il conosciutissimo “Diavolo”. Nel 1982 durante il 37°anniversario della battaglia di Fosdondo ricevette dal Sindaco in carica Giuliano Ferrari, la medaglia ricordo e il diploma che lo descrive come “protagonista generoso ed eroico di una delle pagine più belle della storia della Resistenza a Correggio e in Provincia”.
Dalla liberazione e fino all’insediamento definitivo dei Carabinieri, fu vice-comandante del presidio di Fabbrico.
Successivamente si ritirò alla vita civile, diffondendo ideali di democrazia e libertà, concentrandosi sulla pittura, rappresentando nei suoi quadri momenti vissuti durante la guerra e la resistenza.
Ringraziamo Roberta Barelli ed il figlio di Bill, Giancarlo Montanari per la preziosa testimonianza.
Montanari Felice “Nero”
Il sappista Felice Montanari appartiene a quella straordinaria generazione di giovani partigiani, donne e uomini, grazie ai quali non avremmo riscattato l’onta del fascismo e non avremmo conquistato il diritto ad essere un popolo libero ed indipendente.
Nato a Canneto sull’Oglio (MN), a 16 anni aderì alla Resistenza. Nell’autunno del ’44 aveva già da mesi abbandonato la zona di nascita perché ricercato dai fascisti in seguito ad azioni compiute nel mantovano. Nell’estate del ’44 “Nero” raggiunse i partigiani della montagna, ma ben presto, in seguito ai rastrellamenti tedeschi, rimase sbandato e si rifugiò a Castelnovo Sotto, dove, ospitato dalla famiglia Altare, si aggregò ai partigiani di Licinio Tedeschi “Marat”. Il 5 gennaio 1945, il giovane “Nero” venne assediato all’interno di un casello ferroviario nei pressi di Boretto, nel quale sostava insieme ad un maresciallo tedesco fatto prigioniero.
Resistette per alcune ore, da solo, contro numerose forze nemiche ed infine, esaurite le munizioni, si uccise per non darsi prigioniero. Mirabile esempio di fierezza e coraggio, ancora oggi dopo oltre 60 anni, la popolazione di Boretto ricorda con una seguitissima manifestazione, questo giovane combattente per la libertà.
Montermini Pio “Luigi” (1919-1983)
Pio Montermini fornaio di Rivalta, fu membro dell’organizzazione comunista clandestina, fervente antifascista e per questo condannato a 8 anni dal Tribunale Speciale. Detenuto nelle carceri di Castelfranco Emilia, Civitavecchia e San Gimignano, da dove venne liberato nell’agosto 1943 e già nel successivo novembre inviato a Cervarolo dalla Federazione del P.C.I. per stabilirvisi permanentemente e dirigere, non appena possibile, l’azione dei primi partigiani. Luigi maturò ben presto la consapevolezza di dover fare qualcosa contro i tedeschi invasori ed i fascisti che avevano portato l’Italia alla rovina.
Armato di un solo moschetto, ma forte della straordinaria esperienza politica e militare vissuta durante la guerra spagnola, insieme al compagno Michele Gurla “Bari”, anch’esso comunista e perseguitato politico, incoraggiarono i giovani alla renitenza, assistendo i prigionieri alleati ed i primi sbandati dell’8 settembre, svolgendo anche pericolosissime azioni di intimidazione verso i fascisti e le loro spie. Grazie alla collaborazione dei montanari, che non fecero mai mancare il loro determinante appoggio alla Resistenza, il gruppo di Cervarolo iniziò a studiare meticolosamente il territorio alla ricerca di sentieri alternativi, di rifugi naturali che potessero servire come prime basi per i partigiani. Con un’incessante opera di propaganda cercarono di reclutare il maggior numero di uomini possibile, anche tra quei giovani fuggiti dall’arruolamento forzato nell’esercito di Salò. Svilupparono, pur tra enormi difficoltà, un sistema efficiente di rifornimenti per le armi e per i generi alimentari, avvalendosi non solo di collaboratori fidati, ma soprattutto delle prime staffette. Quello di Luigi e dei suoi compagni fu un lavoro preparatorio lento, metodico, condotto prima di tutto clandestinamente, con prudenza ed accortezza, per non compromettere fin dall’inizio il cammino verso la Liberazione.
Tuttavia la formazione vera e propria delle prime brigate avvenne soltanto alla metà di settembre del 1944, con una riorganizzazione che prevedeva 33 distaccamenti suddivisi in tre Brigate: la 26^ comandata proprio da Luigi, la 32^ (che diverrà in seguito 144^) agli ordini di “Sintoni” e la 284^ “Fiamme Verdi” a forte connotazione cattolica con a capo Don “Carlo”, per un totale di oltre 1030 uomini. Nei boschi delle pendici del Cusna e del Ventasso, Luigi, Eros, Bari, Otello Salsi, diedero così vita alla Resistenza, organizzando incessantemente migliaia di giovani, ai quali non mancarono mai di evidenziare tutte le difficoltà, tutti i sacrifici ed i rischi che avrebbe comportato la vita partigiana. E questi giovani si strinsero attorno ai comandanti come Luigi, provati antifascisti, anche per conoscere le loro idee e quelle del partito nei quali essi avevano aderito fin dalle origini, per loro l’unica via di salvezza per l’Italia. Queste straordinarie doti organizzative, di formazione politica e di comando, valsero a Pio Montermini la Medaglia d’Argento al valor militare, riconosciutegli anche dagli americani con la Bronze Star.
Morselli Angiolino “Pippo” (1922-1945)
Pippo Morselli era l’aiutante maggiore del Battaglione S.A.P. di Fosdondo, che ricordiamo proprio attraverso la parole del suo Comandante, Germano Nicolini, il conosciutissimo “Diavolo”:
“Pippo Morselli ha salvato la mia vita, ma ha sacrificato la sua. Proposto di medaglia d’oro, gli è stata concessa alla memoria quella d’argento. Si combatteva da circa mezz’ora e a distanza ravvicinata, ma i fascisti erano centinaia e non riuscivano più a contenerne l’avanzata.
Io avevo la spalla lussata e non ero più in grado di utilizzare il mitra. Mi restavano due bombe a manico lungo e la pistola. Pippo era appostato nella carraia in dirittura di un filare di alberi, ad una trentina di metri da me. Quando io diedi l’ordine di ritirarci dietro l’argine della ferrovia ed indietreggiavo piegato su me stesso per il trauma alla spalla lussata, Pippo capì che non ce l’avrei fatta; rimase fermo nella sua postazione e col fuoco interrotto del suo mitra ed il lancio delle bombe, frenò lo slancio dei brigatisti neri, permettendo a me di raggiungere l’argine e mettermi in salvo. Rimasto senza munizioni, gridò ai fascisti “vigliacchi repubblichini”, per l’inganno del travestimento (erano vestiti alla partigiana ed avanzavano al grido “Diavolo non sparare”), i quali lo freddarono rabbiosamente.
Pippo è un eroe che tengo sempre nel cuore”.
Angiolino Morselli cadde così durante la battaglia di Fosdondo di Correggio, il 15 aprile 1945, proprio pochi giorni prima della Liberazione. Per il suo sacrificio gli è stata concessa la Medaglia d’Argento alla memoria.