LA RESISTENZA A BAISO

 

Nino Piccinini e Giorgio Fontana – 23 giugno 1944

Intervista a Teresa Rina Lusoli

 

BAISO SFIORATO DA BATTAGLIE E RASTRELLAMENTI

La canonica di Baiso

 

Di Michele Bellelli

 

Se guardiamo agli avvenimenti, grandi e piccoli, della guerra di Liberazione nella zona orientale del nostro Appennino  reggiano, notiamo che il territorio di Baiso, nonostante la sua importanza come arteria stradale di collegamento, in assenza dell’attuale pedemontana, venne solo sfiorato da battaglie, rastrellamenti ed episodi violenti in genere.

Il paese aveva tuttavia assunto un’importanza di primo piano durante la guerra in relazione ai numerosi tentativi dei due contendenti di addivenire ad uno scambio di prigionieri, dal settembre 1944 in poi. Come intermediario era stato infatti notato dal vescovo Eduardo Brettoni il parroco di Baiso, monsignor Filippo Rabotti, cugino del podestà di Reggio Emilia, Celio Rabotti.

Baiso, del resto, si presentava come un luogo ideale per questo genere di rapporti: vicino ad uno dei principali centri della provincia (Scandiano), era posto sull’unica strada del versante orientale, che allora portava alla montagna. Non a caso i partigiani della 76^ brigata SAP e della 26^ brigata Garibaldi stabilirono nei dintorni i loro depositi con apposite squadre addette al recupero e alla distribuzione dei beni necessari al sostentamento delle formazioni. Nel territorio del comune passava poi anche la linea di demarcazione fra la zona di competenza delle squadre d’azione patriottiche e le brigate del Comando Unico.

Il primo dei numerosi tentativi compiuti in tal senso avvenne all’inizio di settembre, quando le forze partigiane catturarono quattro agenti della Questura repubblichina a Sordiglio (Casina); tre di essi, riconosciuti colpevoli di spionaggio, vennero giustiziati dopo un processo. Le autorità fasciste, inizialmente, non credettero alla notizia della loro esecuzione diffusa dai partigiani e si impegnarono ad avviare le trattative, che dovettero poi essere inevitabilmente abbandonate.

Nel corso dell’autunno, i contatti vennero nuovamente riallacciati, poiché tanto i partigiani quanto i nazifascisti erano interessati a mantenere aperto un canale di comunicazione, per lo scambio dei rispettivi prigionieri e per eventuali trattative d’altro tenore. La canonica di Baiso e il suo titolare, forte del mandato del vescovo, divennero così una sorta di zona neutrale per questo genere d’incontri.

Già alla fine di settembre, monsignor Rabotti era nuovamente impegnato nel difficile compito del mediatore fra due parti così inconciliabili coi partigiani e i nazifascisti; per i primi, guidati dal nuovo Comando Unico di Zona, appena creato dopo la ristrutturazione delle brigate partigiane seguita alla caduta della Repubblica di Montefiorino, fu nominato rappresentante l’istruttore del Tribunale garibaldino Eros Bianchi, detto Michele.

In quel momento, nelle mani dei ribelli c’erano quattro fascisti di sicuro valore per uno scambio: l’ex federale e capo della brigata nera Armando Wender, la sorella Corinna e Luca Beggi e Vittorio Polak, due stretti collaboratori del primo.

In mano ai fascisti vi erano invece diversi partigiani e altri ancora erano affidati ai tedeschi; citiamo qui, per brevità, solamente Rino Soragna, Athos o Muso, comandante dei GAP e Silvio Brevini Grido, responsabile organizzativo del partito comunista.

Il 2 ottobre, il comando tedesco faceva sapere al Comando Unico, tramite monsignor Rabotti, che il luogo per effettuare lo scambio, inizialmente individuato nella parrocchia di Baiso, sarebbe dovuto essere spostato a Viano.

L’intermediazione diede, negli ultimi giorni, i suoi frutti e alla fine di ottobre una delegazione partigiana venne ufficialmente invitata a Reggio Emilia, con tanto di lasciapassare, per definire i dettagli dello scambio e procedere materialmente allo stesso. Michele e monsignor Rabotti arrivarono nel capoluogo il 28 ottobre e furono ricevuti solo dai Tedeschi, in quanto i repubblichini erano impegnati nelle celebrazioni della marcia su Roma. Oltre allo scambio di prigionieri venne raggiunto anche un accordo per il reciproco riconoscimento dei combattenti nemici, che d’ora in poi sarebbero stati trattati come veri e propri prigionieri di guerra. L’esecuzione sommaria, la deportazione o la tortura, vere e proprie spade di Damocle che pendevano sulla testa dei nemici catturati, appartenevano ormai al passato. O almeno così avrebbe dovuto essere, mentre la realtà fu molto diversa e gli accordi presi non vennero mai messi in pratica. I nazifascisti li violarono nel momento stesso in cui furono ratificati: i prigionieri liberati non erano quelli che i partigiani si aspettavano, ma semplici civili arrestati per l’occasione e liberati; anche la salvaguardia della vita dei prigionieri per il futuro non venne rispettata, come dimostra il massacro del distaccamento “Fratelli Cervi”, arresosi proprio confidando sugli accordi in vigore, perpetrato a Legoreccio il 17 novembre 1944.

Nonostante l’esito disastroso di quella prima intesa, i rapporti intessuti dal parroco di Baiso non vennero recisi, ma anzi continuarono di fatto fino alla fine della guerra, portando  a nuovi scambi di prigionieri. Le trattative si interruppero definitivamente il 20 aprile 1945, quando monsignor Rabotti rese noto al Comando unico che il prefetto Temistocle Testa cercava un contatto per addivenir ad uno scambio totale dei rispettivi prigionieri, vantando aderenze nelle più alte gerarchie militari tedesche. Eros e Monti, vale a dire Didimo Ferrari (commissario generale) e il colonnello Augusto Berti (comandante generale), avevano tuttavia scritto al gerarca per informarlo che

 

“Non si possono più prendere in considerazione trattative di scambio, essendo venuta a mancare da parte nostra la condizione essenziale per svolgerle, in quanto i prigionieri in nostre mani sono stati inviati al di là del fronte in seguito  al fallimento delle precedenti trattative e alla puntata tedesca di Sologno-Villaminozzo. Data la situazione cruciale determinatasi negli ultimi giorni, non si ritiene opportuno inviare i nostri rappresentanti a Baiso, in zona cioè lontana dal loro posto di lavoro.”

 

Significava, in sostanza, che l’insurrezione finale era imminente e i prigionieri sarebbero stati liberati inevitabilmente come conseguenza della resa o della fuga dei nazifascisti.

In una delle ultime operazioni antiribelli compiute in montagna da Tedeschi e fascisti, veniva coinvolto di fatto per la prima volta nel corso della guerra, anche il territorio di Baiso. Il 20 marzo 1945, i Tedeschi provenienti da Scandiano iniziarono un rastrellamento battendo tutta la zona fra Viano, Regnano e Tabiano. A causa della forte pressione esercitata su di loro, i partigiani furono costretti ad abbandonare le proprie posizioni e ripiegare a sud, proprio verso Baiso.

Nonostante la relativa tranquillità di cui godette il paese, alla fine della guerra i suoi abitanti lamentarono ugualmente un pesante tributo di sangue: due furono i partigiani del luogo caduti in azione e tredici civili rimasti vittime di combattimenti e rastrellamenti.

I patrioti caduti sono Artemio Gualtieri, detto Flavio, appartenente alla 26° brigata Garibaldi e deceduto il 31 agosto proprio a Baiso, e Giuseppe Ferrante, morto il giorno precedente a Costrignano (Modena), dove operava nella locale brigata partigiana.

Quasi per paradosso, alcuni abitanti di Baiso morirono molti mesi dopo la fin del conflitto, in un gravissimo incidente accaduto a Casola di Querciola: l’8 dicembre 1945, un improvvisato artificiere tentò di disinnescare una bomba d’aereo rimasta inesplosa, mentre una piccola folla di spettatori assisteva tranquillamente all’evento. Inevitabilmente, il micidiale ordigno esplosa durante il maldestro tentativo, uccidendo dieci persone, fra le quali anche diversi bambini.

In chiusura, alcune brevi annotazioni statistiche: secondo le fonti archivistiche oggi a disposizione, i militari di Baiso caduti fra il 1940 e il 1945 sono stati 58, mentre 102 sono quelli fatti prigionieri dai Tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e deportati in Germania, dove vennero raggiunti da altri 24 loro concittadini catturati durante l’occupazione nazista.

 

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