Pensieri liberi
IO MI VACCINO E TU?
Sono Sarah classe 2002. Sono della generazione digitale del nuovo millennio.
Non ci sto’ a lasciare da sola Liliana Segre, classe 1930, nella battaglia per vaccinarsi.
Ecco allora che con questo ponte generazionale, che abbraccia settantadue anni di tempo, mi unisco idealmente per condividere il pensiero che accomuna tutta l’umanità intera: sconfiggere le malattie!
Voglio anche sottolineare che sono d’accordo con quello che dice la Segre. Il fatto di vaccinarsi o no é una decisione personale che può dipendere dai più svariati motivi. Ciononostante in questo momento, ognuno é posto davanti alla propria coscienza, bisogna prendere una decisione che riguardi il bene comune e non gli interessi personali.
Comunque, qualunque decisione ognuno prenda non deve essere oggetto di odio o di diffamazione.
E noi giovani dell’Anpi siamo qui volutamente presenti per suggellare e farci garanti di questa amicizia e collaborazione tra generazioni diverse ma indissolubilmente unite dai comuni ideali sanciti nella Costituzione Repubblicana.
Solo uniti si può sconfiggere ogni sorta di male!
Anpi ha avuto nel passato il fulcro della sua storia ma è qui nel presente, viva e vegeta, per proiettarsi nel futuro e per questo non conta l’eta’ anagrafica.
LAURA CAVAZZONI in REVERBERI
Non è facile sistemare il mondo di Laura[1], lei credeva di aver fatto una vita semplice, in verità è stata donna che ebbe il coraggio di vivere la seconda guerra mondiale tra l’amore, la paura e l’orgoglio di chi non voleva mollare il sogno della libertà. E fare una figlia. Si considerava una donna normale come altre del suo tempo, gli esempi li aveva di fianco a Villa Cavazzoli. Era giovane, oggi di lei diremmo una ragazza, neanche vent’anni ma già tante responsabilità fin da quando era bambina e maturò la convinzione di seguire la strada della lotta politica per un mondo dove le persone potessero avere uguali diritti, una idea vissuta in famiglia, sostenuta da un grande matrimonio d’amore con Walter e la voglia in un mondo più bello per sua figlia Giuliana.
La storia le ha scandito le tappe fondamentali, nozze nel 1942, nascita della figlia dopo sei mesi[2], l’impegno politico clandestino nell’antifascismo, la separazione dal marito dopo la caduta di Mussolini. Walter Reverberi[3] andò in montagna a fare il partigiano, lei si impegnò come moglie di un partigiano a compiere azioni concrete apparentemente minime ma importanti per i collegamenti tra antifascisti. Finalmente la Liberazione dal nazifascismo le permetterà di vivere in democrazia una vita normale, una bella famiglia con Giuliana e Walter diventato ferroviere e Capostazione delle Ferrovie dello Stato prima a Cadè e dopo a Reggio Emilia. Morì prima di Laura ma in famiglia fu sempre presente con la sua la voce calma e concreta che a ripensarla emoziona ancora.
Di semplice nella vita di Laura giovane, ragazza e mamma di Giuliana, moglie del partigiano Walter, non ci fu niente, il destino l’aveva messa in difficoltà fin dall’infanzia. Questo il suo racconto.
Sono rimasta orfana a due anni, ero cresciuta nella famiglia di mia madre, quella dei Vologni, lo zio Aurelio fratello della mamma lo mettevano in prigione ogni 1° Maggio, fu arrestato nel 1928 dal tribunale speciale e perse anche il lavoro in calzificio, uscito dalla galera emigrò in Francia e poi nel 1936 espatriò in Spagna per la difesa della Repubblica. Dopo andò in Africa. A Liberazione avvenuta rimase disoccupato due anni, venne aiutato dalla sorella, poi fece lo stradino. Un’altro zio, Mario mi chiese di tacere quando nel “tasel” mi venne in mano il suo passaporto per la Francia e io gli domandai dove vai? Mi raccomandò di tacere; avevo sei anni e tenni il segreto. Era la prima responsabilità politica che prendevo senza saperlo. Mario è stato partigiano in Pianura, fece il carcere con Paietta, sua moglie Ester[4] aveva la mia stessa età e nella lotta di Liberazione seguì sempre il marito negli spostamenti per evitare l’arresto, lo sostituiva negli impegni e fece la staffetta partigiana. Aggiungo io modesto biografo di Laura che in quel conflitto “il lato forte dei reggiani è stato femminile”.
Quando scoppiò la guerra nel 1940[5] Walter era soldato. Ci siamo sposati nel 1942, era tornato a casa convalescente per la malaria, venne richiamato in sevizio militare ma dopo sei mesi ritornò a lavorare alle Reggiane grazie alla richiesta del Direttore ing. Vischi. Mia madre era la sarta di sua moglie. Il 28 luglio del 1943 l’esercito sparò agli operai che protestavano davanti ai cancelli della fabbrica, uccisero 9 persone e tra loro una donna incinta[6]. Dopo l’eccidio Walter non andò più a lavorare in quelle officine, si mise a fare il contadino nei campi. Il fascismo era crollato e l’esercito allo sbando, Bruno[7] ritornò a piedi da Fiume, si nascose per 7/8 mesi poi andò in montagna. I primi partigiani fecero la battaglia di Cerrè Sologno.
Quando c’era il fascismo, si facevano riunioni in mezzo nel grano[8] per distribuire i volantini del PCI. Li mettevamo anche nelle gambe di legno di Giuseppe[9]. Il 23 luglio ’43 cadde Mussolini, in quell’anno mi ero iscritta al PCI, avevo 21 anni, abitavo ai Cavazzoli e lì ci conoscevamo bene. Continuò Laura. La paura circolava perchè l’Italia era allo sbando ma si dovevano concretizzre gli impegni per la lotta armata contro i fascisti e soldati tedeschi. Paolo Davoli consigliò a Walter di creare le SAP, gli diede la sua rivoltella dicendogli “ti auguro di usarla quanto me, cioè mai”. Walter andò in montagna nel novembre del 1944. Quella rivoltella l’ho consegnata al Museo della Resistenza di Reggio.
Eravamo in guerra e le azioni partigiane si facevano sentire, il prezzo era alto, ho visto i corpi di 4 ragazzi “ingrugnati” nel fosso, ho messo le mani nella tasca di uno ed ho trovato la tessera del tabacco, aveva 19 anni, era un Guardasoni di Pieve, mia madre andò ad informare i parenti. Nel ritorno sulla strada di Roncocesi verso i Cavazzoli li guardò di nuovo, le mani legate col filo di ferro e la testa nel pantano. Intercala Laura, adesso il cippo che li ricorda è sempre in ordine. Mia madre era spaventata, vide anche quelli uccisi a Villa Cadè.
Alcuni familiari mi rimproveravano perchè avevo una figlia piccola ed i rischi per andare a Villaminozzo in bicicletta a trovare Walter tra i partigiani te li lascio immaginare. La paura faceva “novanta”, quando passava “pippo”[10] era niente, il terrore erano le macchine sotto casa perchè le avevano solo i fascisti e tedeschi, “pippo” non ci interessava noi avevamo paura che ci bruciassero le case. Potevi fare degli incontri che non ti aspettavi, una volta scesero da un pullman molti fascisti, fecero allineare tutti gli uomini, presero Ribelle[11], andarono a casa sua, perquisirono mettendo sottosopra la camera e sopratutto frugarono nel comò. L’Iride, moglie di Ribelle, ad un certo punto si arrabbiò e disse basta che lasciassero stare, non c’era niente, i “ragazzi neri” andarono via. Più tardi Ribelle e la moglie si accorsero che in una scatola si trovava lo stemma quadrato del PCd’I del 1921, rossa con falce e martello, piccola come un bottone. Fummo fortunati. Quando presero Ribelle c’era anche Walter ma lo lasciarono andare.
Col cuore in allarme la paura era sorella gemella del coraggio. I SAP di Cavazzoli andavano fuori di notte, quando rientravano mettevano le armi nell’ossario del cimitero, qualcuno gli consigliò di spostarle ma uno la mise ancora in quel posto, era uno sfollato[12] e stava dal contadino del prete. Di sicuro ci fu una spiata perchè i fascisti trovarono il fucile e se la presero con il figlio del campanaro anche lui delle SAP che il suo moschetto l’aveva nascosto sotto l’altare della chiesa, riuscì a scappare ma venne catturato a Ciano e ucciso per rappresaglia con altre venti persone. Non ricordo bene se a Cerredolo.
Senza essere vista prendevo di nascosto le biciclette ai soldati tedeschi in Via del Palazzolo o via San Pietro Martire, erano alte e nere, dovevo far presto ad infilarle dentro un portone in Piazza San Lorenzo, entravo nel cortile e le consegnavo a Giaroni, un persona anziana sui settanta anni. Ai Cavazzoli di notte attaccavamo i volantini sui muri contro i fascisti di Salò, andavo con la Camilla. Una volta che ritornammo a casa ci siamo accorte che il secchio di colla aveva un buco dal quale cadevano le gocce e segnavano il nostro percorso. Tanta paura ma c’è andata bene.
Con la bicicletta sono riuscita a raggiungere Walter il giorno di Pasqua del 1945[13], per arrivarci andai da Castellarano, c’erano solo mulattiere, era un mondo diverso da quello che conoscevo, a Reggio c’erano le strade. Con Walter c’era Bruno il fratello ed un altro ed anche Carretti[14], in tutto erano quindici a Gaggiola e Carù. Mangiavano polenta e castagne. Una colonna di tedeschi e fascisti da fondo valle iniziò l’attacco alle posizioni partigiane proprio quando mi trovavo lì. Altro che paura, una “fifa della Madonna”. Vennero respinti e dopo tornò tutto normale. Un ragazzo di Roncocesi mi chiese di portare un saluto a sua madre che abitava vicino alla Via Emilia, cosa che feci, andai con mia madre Maria. Alla mamma del giovane partigiano dissi “le porto i saluti di suo figlio”, lei mi rispose “non c’è dubbio che mio figlio è in Germania!”. Le risposi io le dico così lei faccia quello che crede. Quella mamma era una persona accorta, stava sul chi vive perchè i fascisti usavano delle spie per conoscere le famiglie dei partigiani.
Una mattina dei primi mesi del ’45 io e la Camilla[15] siamo andate dal fornaio di Cadelbosco Sotto perchè ci avevano detto che prima di Santa Vittoria c’erano cinque morti, si diceva che erano dei ragazzi venuti dalla montagna. Chiedavamo informazioni e volevamo vedere se c’era il marito o il fratello. Arrivammo sul posto e tirai su il lenzuolo e vidi Foscato morto, un brivido raggelante. C’era anche il corpo di Erio Benassi, poi sapemmo che tentò di scappare. Al nostro Paolo Davoli mancava una gamba, l’aveva rotta saltando giù dalla finestra per fuggire dal carcere.
Il 24 aprile del ’45 con la Camilla e Loredana[16] siamo andate a prendere moschetti e bombe a mano nel Palazzo della Concezione nel centro di Reggio, armi lasciate dai tedeschi in fuga. Le caricammo sopra ad un carretto senza alcuna precauzione, dovevano arrivare a Walter e Bruno, le portammo al Quinzio dove c’era la casa di Irma, poi ci pensava lei a farle recapitare in montagna. Il giorno dell’arrivo dei partigiani in città, il 25, non vidi ne Walter ne Bruno, però andai in piazza con le donne dei Cavazzoli, di fianco avevo Paola Davoli la figlia del nostro Paolo. Finalmente potevamo sbandierare il “tricolore” della “liberazione”.
Nelle settimane dopo il 25 aprile Walter era stato inquadrato nella polizia ferroviaria mentre Bruno in quella partigiana, mio marito aveva la possibilità di partecipare ad un concorso per diventare “capostazione” delle ferrovie dello Stato. Andai al Distretto militare per chiedere il foglio matricolare necessario per fare l’esame, fui male accolta dall’Ufficiale, mi chiese se era lureato, io risposi no, ha la quinta elementare, quello si mise a urlare ma “cosa vogliono questi partigiani, cosa vuole da noi? Laura mi guarda e dice che c’era da aver paura. Un brutto risveglio di fronte ad una cariatide del vecchio Stato italiano non ancora scomparso. Ma la fine intelligenza delle donne reggiane che hanno combattuto e sperato in giorni migliori hanno interpretato nel modo più logico la transizione politica. Mi hai detto, “quando siamo andati a votare la prima volta avevamo un entusiamo da non credere[17]. E quanti sacrifici abbiamo fatto!”. Dopo pochissimi anni io con Ester ed un’altra compagna facemmo per i bambini il primo l’Asilo dell’UDI di via Bainsizza, Ester la dirigeva io l’aiutavo. Non sembra ma c’era libertà.
Con questo ultimo ricordo Laura ha terminato il racconto, al biografo rimane il compito di aggiungere che la bella Costituzione democratica dell’Italia conquistata con la Resistenza è la più nobile delle medaglie che dobbiamo appendere alla memoria di Laura Cavazzoni in Reverberi[18].
Riccò Gian Franco (8 gennaio 2021)
[1]Laura Cavazzoni nata nel 1922
[2]Giuliana Reverberi nata nel 1942.
[3]Walter Reverberi nato nel 1919, deceduto nel 1994, fratello di Ribelle, Giustizia, Camilla e Bruno.
[4]Vercalli Ester di Montecavolo.
[5]In realtà la II guerra mondiale iniziò nel 1939 ma l’Italia entrò nel conflitto
[6]Domenica Secchi.
[7]Bruno Reverberi fratello di Walter era nato nel 1922.
[8]Ovviamente prima della trebbiatura.
[9]Riccò Giuseppe grande mutilato della prima guerra mondiale portava protesi di legno per camminare.
[10]L’aereo caccia “pippo” sorvolava il cielo delle città e campagne per mitragliare le colonne dei soldati tedeschi.
[11]Reverberi Ribelle fratello di Walter e Camilla.
[12]Gli sfollati erano i cittadini che si rifugiavano in campagna per evitare i bombardanti della città.
[13]Nel 1945 la Paqua capitò il 1° aprile.
[14]Giuseppe Carretti, partigiano, Sindaco di Cadelbosco dopo la Liberazione, Presidente dell’ANPI provinciale di Reggio Emilia.
[15]Camilla Reverberi sorella di Walter e nuora di Riccò Giuseppe.
[16]Loredana Reverberi figlia di Ribelle e nipote di Laura. A quel tempo una ragazzina.
[17]Prima volta del voto alle donne nel 1946, prima volta per far nascere la Repubblica italiana dopo la conduzione disastrosa delle guerre approvate da Vittorio Emanuele III°.
[18]Laura nata nel 1922 è deceduta il 23 dicembre 2020 all’età di 98 anni.
IL TRICOLORE LIBERATO GRAZIE ALLA RESISTENZA- (Antonio Zambonelli)
DOPO IL “SEQUESTRO” DA PARTE DEL FASCISMO
Tutti molto interessanti gli interventi pubblicati, oggi 6 febbraio, sulle pagine della Gazzetta, in seguito all’appello lanciato dal quotidiano reggiano. Mi chiedo però dove siano finite le bandiere storiche delle brigate e delle varie formazioni partigiane reggiane – tutte tricolori – tolte quasi mezzo secolo fa dalla sala dei civici musei dedicata alla Resistenza . Una sala che faceva seguito a quelle dedicate al Risorgimento, e che fu smantellata assieme a queste ultime.
Il pur benemerito Museo del Tricolore, che poi fu installato nel Palazzo comunale, recuperando parte dei cimeli risorgimentali, non si conclude, come avrebbe dovuto, con le vicende della Resistenza e consequenziale “restituzione” del Tricolore (dal 1921 “sequestrato” dal fascismo) a tutti gli italiani. Una restituzione che va documentata proprio anche con la esposizione dei tricolori partigiani. Che dopo il 25 aprile non furono sostituiti dalle bandiere rosse. Anche se per alcuni, legittimamente, vi si accompagnarono, in una visione di generosa utopia internazionalista.
Sul settimanale dei partigiani reggiani “Nuovo Risorgimento”, il 5 gennaio 1947, il segretario del Pci reggiano ed ex comandante partigiano nella Brigata Garibaldi, in Jugoslavia, Valdo Magnani, scriveva, quasi in modo autobiografico:
“Molti italiani sono stati mandati a combattere fuori dal territorio della Patria. L’amarezza che viveva in loro diventava impeto di commozione quando vedevano sventolare il Tricolore. Era però anche un senso di sofferenza, poiché, di fianco alla croce uncinata, stava a rappresentare, di fronte ad altri popoli, oppressione, dominio della violenza.
Il nostro Tricolore non ci è stato regalato da nessuno, il popolo lo ha conquistato “.
Dal canto suo Didimo Ferrari Eros, già commissario generale delle formazioni partigiane reggiane, e dalla fondazione segretario carismatico dell’ANPI, annotava sul suo Diario il 4 marzo 1947: “Il Presidente della Costituente [il comunista di origine ebraicaUmberro Terracini, NdR] mi ha risposto che appoggerà la richiesta fatta per stabilire che il 7 gennaio sia considerata solennità civile e Giornata del Tricolore”.
Non servono miei commenti. Solo un auspicio: che il 27 febbraio, a Fabbrico, un altro Luca T. non torni ad innalzare la bandiera di combattimento della Rsi. Tricolore, sì, ma con quella rapace aquila al centro, solo furbescamente privata del fascio littorio fra gli artigli. Nel 1944, quella bandiera, sventolava di fianco a quella, rossa, ma recante nel disco bianco la nera svastika generatrice di Auschwitz.
Il Sindaco di Stazzema – Maurizio Verona
Avrete forse appreso dai giornali della mia iniziativa di creare a difesa dei valori della nostra Costituzione, a settanta anni dalla sua entrata in vigore, una Anagrafe Virtuale che raccolga tutti coloro che si sentono impegnati in difesa dei valori che condividiamo di libertà, democrazia, legalità e contro il diffondersi di episodi di intolleranza, di rievocazione dei totalitarismi dello scorso secolo, che fecero della violenza lo strumento di affermazione contro oppositori politici, minoranze etniche e religiose. Sono questi i valori della Resistenza che hanno trovato attuazione nella Costituzione Repubblicana.
Si può aderire all’iniziativa semplicemente compilando un form disponibile sul sito istituzionale del mio comune (www.comune.stazzema.lu.it ).
Invito l’ANPI a sostenere l’iscrizione all’Anagrafe Antifascista, facendo crescere questa iniziativa che non vuole escludere nessuno, ma rappresentare un impegno contro il ritorno di simboli e messaggi che rimandano al fascismo e al nazismo che ci devono preoccupare.
Sintesi – 9/9/2017 – RobertoTorre
Siamo i sinti reggiani, quelli che sono stati nel campo di concentramento di Prignano sul Secchia, che hanno anche combattuto come partigiani (formazione Corsini). Lavoriamo prevalentemente nello spettacolo viaggiante, siamo noi che accendiamo le luci dei Luna Park, illuminando anche le feste di partito. Apparteniamo alla più grande minoranza storico-linguistica europea che è anche la più svantaggiata e stigmatizzata e in Italia, nonostante gli interventi di numerose organizzazioni internazionali, tra cui il Consiglio d’Europa, L’OSCE e l’Unione Europea, la strategia di inclusione nazionale non solo non avanza ma spesso sembra arretrare.
Non è così nella Regione Emilia Romagna, dove nel 2015 è stata varata una legge (L.R. 11 del 16 luglio “Norme per l’inclusione sociale di rom e sinti”) che prevede: “Il superamento delle aree sosta di grandi dimensioni a favore di una pluralità di soluzioni abitative tra cui le microaree familiari pubbliche e private”. L’Unione Europea chiede, infatti, che nel 2020 i campi sovraffollati in cui siamo concentrati, gli unici spazi in cui si può vivere in abitazioni su ruote, siano superati. La legge regionale, alla cui stesura abbiamo partecipato, purtroppo non è vincolante per i comuni e sindaci e assessori ci lasciano in attesa per mesi e anni, oppure ci siamo sentiti rispondere esplicitamente che applicare la legge danneggerebbe la loro immagine politica.
In questo periodo storico che vede il ritorno alla ribalta di razzismo e fascismo, che per nostra esperienza in questo paese non sono mai stati archiviati, noi non arretriamo ma non possiamo fare affidamento su politici preoccupati di assecondare chi cerca un facile colpevole per tutto. Per questo ci rivolgiamo a chi si è sempre spesa in difesa dei diritti e alle organizzazioni della società civile, soprattutto ANPI e ARCI, unite, citando Smuraglia, dalla “comune identità di radici, per l’appassionato e fattivo sogno di rigenerazione antifascista della società”. Chiediamo alle associazioni di sostenere attivamente i diritti riconosciuti in campo internazionale e scritti nella nostra Costituzione (articoli 3 e 6), citandoci come minoranza da rispettare e a tutti diciamo: “Ridatevi dignità” (Nelson Mandela).
BRUNO VALCAVI “Kira” ci ha lasciato
Nella serata di venerdì 7 gennaio ci ha lasciato il partigiano Bruno Valcavi, Kira nella Resistenza, un altro dei protagonisti della ricostruzione democratica del Paese dopo avere valorosamente combattuto per liberarlo dal fascismo e dall’occupazione nazista.
Aveva fatto in tempo a festeggiare il suo 91° compleanno il 5 dicembre u.s. nella sua Carpineti.
Rimasto orfano del padre a 14 anni, aveva dovuto subito lavorare come garzone contadino per provvedere al sostentamento della famiglia composta dalla madre Alma e da 7 fratelli e sorelle.
Dopo aver combattuto nel distaccamento Pigoni della 26.a Brigata Garibaldi, Bruno continuò il suo impegno in una politica vissuta come servizio.
Segretario del Pci carpinetano dal 1948, dal 1959 al 1967 fu attivo sindacalista in tutta la zona est dell’Appennino, fino a Collagna e Ligonchio.
Il suo fu un impegno appassionato non solo per la rivendicazione dei diritti dei lavoratori ma anche per suscitare lo sviluppo economico di una montagna uscita gravemente colpita dalla tragedia della guerra. Già consigliere comunale a Carpineti, nel 1967 venne eletto Sindaco e tale riconfermato nel 1970 e nel 1975.
Insofferente dei rigidi steccati ideologici, seppe guadagnare la stima pressoché universale dei suoi concittadini emergendo anche come figura carismatica in tutta la montagna.
Fedele agli ideali di libertà e giustizia per i quali aveva combattuto da partigiano, è stato anche presidente dell’ANPI di Carpineti dagli anni Cinquanta fino al 2015.
Nonostate l’età e la menomazione della funzione visiva, continuò fino all’ultimo di occuparsi anche del tesseramento all’associazione partigiana, non solo telefonando alla sede provinciale, ma anche firmando lettere che dettava a suoi collaboratori e che spediva regolarmente.
Nell’appena trascorso 2016, aveva fatto in tempo ad essere presente a vari significativi appuntamenti: dalla cerimonia del 25 aprile, a quella, nell’autunno successivo, con altri 3 partigiani di Carpineti, per la consegna della medaglia ministeriale per il 70° della Liberazione.
Dal 21 al 23 ottobre Reggio ricorda Otello Sarzi, burattinaio e partigiano .
A questi aggiungo che venerdì 21 alle 19 presso la Casa dei Burattini di v. del Guazzatoio, l’aperitivo sarà occasione per rilanciare l’attività della Fondazione Famiglia Sarzi, mentre sabato 22 presso il Centro Sociale dell’Orologio insieme a Remo Melloni ripercorreremo il percorso artistico di Otello, percorso strettamente legato al suo impegno sociale e politico.
Infine, mi permetto di segnalarvi lo spettacolo E’ bello vivere liberi!, credo una bella occasione per tutte/i noi! Si tratta di uno spettacolo realizzato in collaborazione e con il sostegno di Comitato Provinciale per la promozione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana di Gorizia, A.N.P.I. Comitato Provinciale di Gorizia, A.N.P.I. Sezione Ronchi dei Legionari. La storia ve la lascio scoprire leggendo la scheda…
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Nel mese di Maggio dello scorso anno è deceduto il partigiano Ezzelino Torregiani di Reggio Emilia, nome di battaglia “Cane”. Chiedo l’ospitalità del vostro periodico perché vorrei ricordarlo e, nel contempo, fare alcune considerazioni.
Ho conosciuto Ezzelino Torregiani nel 1995 a Milano, in occasione della presentazione del mio libro sul Tribunale Speciale pubblicato dall’ANPPIA. La sera ci trovammo allo stesso tavolo di un ristorante, lui era assieme ad un altro compagno di Reggio, che credo fosse il compianto Carlo Porta. Facemmo immediatamente amicizia. Quando mi comunicò di essere reggiano io, appassionato di storia della Resistenza, gli manifestai il mio interesse a visitare questa storica città, in particolar modo per conoscere i luoghi che avevano visto l’epopea della famiglia Cervi. Ezzelino, con quella spontaneità e generosità che capii dopo era uno dei tratti caratteristici della sua personalità, si dimostrò disponibile a farmi da cicerone e mi invitò ad essere ospitato in casa sua. Ed aggiunse, rivelando un altro lato del suo carattere, l’umiltà: “Se ti accontenti di casa mia, che è una casa di operai!”. Io gli feci presente che a queste cose non ci bado affatto e combinammo che non appena ne avrei avuto la possibilità sarei senz’altro venuto a Reggio. Mi recai a Reggio l’anno seguente e misi piede in una città che con gli anni ho imparato a conoscere ed amare, dove avrei conosciuto numerosi compagni che hanno lasciato un segno indelebile nel mio animo. Per un malinteso senso di ritrosia, preferii alloggiare al Baglioni piuttosto che in casa sua, ma fermandomi da lui a pranzo e a cena. Conobbi anche la moglie (“la Cocca” come lui e gli amici la chiamavano), che si rivelò persona anch’essa affabile ed ottima cuoca, esperta in specialità gastronomiche reggiane. Così visitai il museo Cervi di Campegine ed il poligono di tiro ove furono fucilati i sette fratelli, Quinto Camurri e don Pasquino Borghi. Ricordo ancora l’emozione che provai allorquando, in una tiepida mattina di primavera, parcheggiammo nel vasto cortile di casa Cervi. Mi sovvennero, in un fluire impetuoso, i ricordi derivanti della lettura dei “Miei sette figli”, le immagini del film “I sette fratelli Cervi” e tanto altro ancora. Mi trovavo in un luogo simbolico di cui avevo soltanto letto, un pezzo di storia d’Italia, una fusione inebriante di mitologia resistenziale e di concretezza quotidiana. Lì ci aspettava l’indimenticabile Maria Cervi, che Ezzelino aveva avvisato in tempo ed allora conobbi un’altra compagna con la quale avrei intrattenuto fino alla sua morte un’amicizia che la lontananza geografica non avrebbe attutito, rafforzata della nostra appartenenza al Consiglio nazionale dell’ANPI io ed al Comitato nazionale lei. Nel 1997 Maria sarebbe stata nella mia città, Catania, per partecipare, su invito della locale ANPI, a quello che è stato il convegno più riuscito che abbiamo organizzato, sulla partecipazione delle donne alla Resistenza, assieme ad altre due donne meravigliose, Tina Anselmi e Nadia Spano.
Lei ci accompagnò a visitare il museo, dove ci fece immergere nella ricostruzione della vicenda, drammatica ed esaltante, della famiglia Cervi. Ci illustrò il significato del famoso mappamondo collocato sul trattore, ci aprì le singole stanze, ognuna delle quali era stata testimone di eventi familiari e storici nel contempo, ci raccontò l’episodio della concessione delle sette medaglie d’argento, conseguenza nefasta della guerra fredda. Siccome si tratta di un episodio che probabilmente pochi conoscono, vorrei raccontarlo. Allorquando venne formalizzata dallo Stato italiano la decisione di assegnare ai sette martiri una decorazione al valor militare, gli addetti alla procedura si recarono dai familiari e fecero loro il seguente ragionamento, che è un capolavoro di furbizia democristiana. Era stato deciso di non assegnare sette medaglie d’oro in quanto questo avrebbe fatto risaltare la preponderante partecipazione dei comunisti alla Lotta di Liberazione e messo in secondo piano l’apporto dato dalle altre forze politiche, pertanto i familiari avrebbero dovuto scegliere tra la concessione di una sola medaglia d’oro o di sette medaglie d‘argento. Siccome gli interessati avevano sdegnosamente rifiutato l’opzione di una unica medaglia d’oro (“si tratta di sette persone, non di una!” fu la ferma risposta), allora lo Stato italiano, nato dalla Resistenza, aveva assegnato sette medaglie d’argento.
Quando le domandai cosa ricordava della tragica notte in cui erano venuti i fascisti del capitano Pilati a circondare la cascina intimando la famosa frase: “Cervi, arrendetevi” lei rispose con prontezza ed amarezza nel contempo: “Ricordo tutto!”. Poi ci recammo al cimitero di Campegine per rendere omaggio alle tombe dei sette fratelli, ma era chiuso ed allora promisi ad Ezzelino che sarei tornato, perché quel luogo era una tappa doverosa nell’ossequio che intendevo porgere ad una famiglia che tanto ha dato per la libertà e l’uguaglianza. Ritornai a Reggio l’anno seguente (stavolta ospite in casa Torregiani) e potei mantenere la promessa di visitare le tombe dei sette fratelli, di Papà Cervi e di Genoveffa Cocconi, con Maria come accompagnatrice e deposi sette garofani rossi. Conobbi anche Margherita Cervi, l’ultima delle spose dei fratelli Cervi, mamma di Maria. Era Giugno, lei sarebbe scomparsa il mese successivo, quindi fui l’ultima persona a conoscerla.
Le mie visite a Reggio e le permanenze in casa Torregiani divennero una piacevole consuetudine annuale. Tenendosi le riunioni del Consiglio nazionale dell’ANPI in Emilia Romagna (che a quanto pare è divenuta lo zoccolo duro dell’antifascismo), ne approfittavo per trascorrere qualche giorno con i miei amici. Così come divennero una consuetudine gli incontri che Ezzelino mi organizzava, dimostrando nei miei confronti vera amicizia. Le immagini di quelle occasioni mi scorrono davanti agli occhi, dalle gite propriamente turistiche, come l’escursione in battello sul delta del Po’ o a Brescello sui luoghi guareschiani, alla visita ai castelli canossiani, a quelle di valenza storica. Grazie al suo apporto potei visitare in lungo ed in largo i luoghi della Resistenza reggiana. Fu in queste occasioni che ebbi modo di apprezzare un altro aspetto del carattere di Ezzelino, l’umanità. Uno dei primi luoghi che mi condusse a visitare fu una zona periferica di Reggio (di cui non ricordo il nome) dove mi mostrò alcune lapidi con foto di partigiani caduti. Mi spiegò che in quel luogo aveva partecipato, appena sedicenne, al suo unico combattimento e quei caduti erano i compagni del suo reparto. Mi mostrò una delle lapidi e mi spiegò, con amarezza, che quel partigiano, che era tanto bravo, era stato ucciso da una raffica di mitragliatrice tedesca che gli aveva staccato di netto la testa davanti ai suoi occhi. Poi mi indicò una casa a poche centinaia di metri e mi disse: “In quella casa abitava una ragazza, che poi sarebbe divenuta mia moglie”. Ciò mi fece comprendere il significato profondo della Resistenza: una guerra fatta tra le proprie case per difendere la propria libertà. Quando festeggiò con i familiari e gli amici il cinquantesimo anniversario di matrimonio, mi mostrò il filmato che avevano fatto. Prima del pranzo, aveva portato un mazzo di fiori sulla lapide dei suoi compagni partigiani. “Perché lo hai fatto?” gli avevo chiesto io. La sua spiegazione mi commosse: “Perché in questo momento felice della mia vita, volevo ricordare i compagni che non hanno avuto la mia fortuna di sopravvivere e di farsi una famiglia come ho fatto io”. Apprezzai quel gesto così delicato, che solo una persona d’animo sensibile qual’era lui avrebbe potuto compiere. Poi la Bettola, il Museo del deportato di Carpi e tanto altro ancora. L’amore per la famiglia è stata una costante dei suoi comportamenti. Mi raccontava, ad esempio, la soddisfazione provata quando realizzò il desiderio di visitare l’ossario di El Alamein, dove un suo fratello era caduto combattendo e rintracciare la sua tomba.
Mi fece conoscere partigiani che hanno fatto la storia di Reggio, da Vivaldo Salsi a Carlo Porta, a Carretti, a Germano Nicolini, che volevo incontrare perché avevo letto della sua drammatica vicenda che da poco si era conclusa in maniera clamorosa con l’individuazione dei colpevoli dell’uccisione di Don Pessina e la sua riabilitazione. Un fiume di parole in piena, inarrestabile! Poi Antonio Zambonelli, persona arguta e studioso della storia reggiana, che invitai a Catania per un convegno sul revisionismo storico, poi l’amico Silvano. Un altro aspetto del carattere di Ezzelino era il suo forte senso dell’amicizia. Mi raccontava che aveva coinvolto i residenti della piccola strada privata in cui abitava in una originale cena annuale lungo la stradina, una tradizione che aveva perpetuato per anni e che lo aveva fatto ribattezzare dal vicinato “il sindaco” per il senso di unità e di fratellanza che aveva creato. Ricordo le serate quando ero ospite in casa sua, trascorse a chiacchierare assieme alla moglie, Silvano, qualche vicino, dove si alternavano discussioni, racconti, aneddoti, misti in italiano e nel dialetto reggiano che è così coinvolgente (con traduzione a me riservata), serate piacevoli, quasi d’altri tempi, che riecheggiavano quella cultura contadina che solo gli anziani si portano dentro.
Ora che Ezzelino non c’è più, rifletto su una aspetto peculiare delle mie esperienze reggiane. Grazie alla sua amicizia, ho avuto modo di conoscere “sul campo” la storia delle Resistenza reggiana. Mi sono reso conto che una cosa è studiare la storia sui libri, ove ne hai un’approccio distaccato, “scientifico”, un’altra cosa è studiarla dal vivo, parlando con i protagonisti, andando sui luoghi dove si sono svolti gli eventi. Una cosa, ad esempio, è stato leggere la vicenda dei sette fratelli Cervi, un’altra cosa è stato ascoltare le testimonianze dirette di Maria. Ti rendi conto che la Resistenza è stata prima di tutto un fenomeno fatto da essere umani, con i loro pregi e difetti, luci ed ombre, nella quotidianità di un vissuto personale prima che storico ed allora hai una rivelazione, come se quella storia che credevi di conoscere la conosci per la prima volta nella sua vera dimensione. Per questo il sentimento di gratitudine che dobbiamo provare per queste persone, viaggiatrici di un tempo che non è superato ma è ancora vivo tra di noi, ci spinge a dir loro qualcosa di più che un semplice “grazie”.
Grazie Reggio per l’accoglienza che mi hai riservata. Grazie caro Ezzelino per la tua amicizia e per le esperienze che mi hai fatto fare. Il dolore provato nell’apprendere della tua scomparsa si accompagna alla considerazione che il legame con Reggio si è spezzato per forza di cose, ma che i ricordi rimangono e si addolciscono con il trascorrere del tempo. Il che può valere come una consolazione. (Claudio Longhitano)
MIO NONNO
Non ho mai conosciuto mio nonno, morto nel 1970 prematuramente, solo quattro anni prima della mia nascista. Mio nonno si chiamava Mario, ho imparato a conoscerlo sulle fotografie che la nonna mia ha sempre mostrarto e dai suoi racconti quand’ero bambino, non tante cose a dir la verità, la sua bontà, la sua mitezza, la sua dignità in ogni scelta, in anni sofferti durante e dopo la guerra. Ancora bambino sarebbe stata tanta la voglia di averlo con me, poi col tempo i sentimenti impari a metabolozzarli e quel che più mi è rimasto di lui è forse quell’indole un pò ribelle, quel non volersi mai uniformare, quel volersi sentire liberi anche quando qualcuno vorrebbe metterti i piedi in testa. Mio nonno era partigiano, uno dei tanti, fece una scelta non facile, ma la fece, mentre altri preferirono imboscarsi o starsene zitti, quando tutto pareva andare in malora. Altri ancora scelsero la tirannia e servire gli invasori. A guerra finita, a Liberazione raggiunta, tornò a casa come tutti i partigiani, senza bisogno di medaglie, di riconoscimenti. Nessuno lo obbligò, tantomeno tutti gli altri suoi compagni di lotta, il loro era un obbligo morale di fronte al sentimento che provavano per la loro terra, per i loro cari, la consapevolezza che scegliere è il mezzo per essere liberi. Quella scelta che mai avrebbe sconfessato, tantomeno oggi se ancora ci fosse, che a quella generazione che fece la Resistenza, invece di onori o ringraziamenti almeno, si tributa fango, offese, calunnie. Oggi (domani per chi legge, 25 settembre) mio nonno avrebbe compiuto 87 anni, classe 1925 la sua, non ho mai parlato di lui, ne scritto, sento però in anni come questi di ricordarlo, senza troppa enfasi, daltronde è questo che più mi hanno insegnato di lui, l’umiltà delle cose semplici. Fu tra i primi a partire per le nostre montagne già ai primi di luglio del 1944, inquadrato con la 144° Brigata Garibaldi, poi, dopo il grande rastrellamento del 20-22 novembre 1944 sul Monte Caio, quando perse tanti cari amici, perchè i partigiani erano uomini e amici, dal successivo mese di dicembre, tornò in pianura, lui nativo di Cavazzoli, nella 76° Brigata Sap. Non ebbe bisogno di cartoline precetto per partire e con lui tutta quella generosa generazione di donne e uomini che non aspettarono che la libertà piovesse dal cielo, se la sono andati a riprendere. Oggi lo si dimentica, addirittura gli eroi oggi , sono diventati gli assassini, i vigliacchi, i traditori, i torturatori, quei fascisti che quelli come mio nonno hanno combattuto. Quanta amarezza e se la provo io, che sono nato tanto tempo dopo, un nipote come altri, provo ad immaginare mio nonno, se ancora ci fosse, cosa direbbe di tutto questo e provo ad immaginare cosa posson sentire nel cuore quelli che invece sono ancora qui con noi. Ecco, mio nonno è stato questo, forse tanti altri leggendo si riconosceranno nelle mie parole, d’altronde quelli come mio nonno erano persone semplici e una volta finita la guerra tornarono a casa per ricostruire, per ricominciare, a volte persino a doversi vergognare per quella cosa grande che avevano fatto, non perchè avessero sbagliato, ma perchè il mondo non era cambiato come si sarebbero aspettati. Lo guardo in una foto, sempre la solita che ho di lui, vorrei ringraziarlo per tutto, ma so benissimo che non vorrebbe sentirselo dire. Ciao nonno, la tua idea vive con me. (Alessandro Fontanesi)
“REPUBBLICHINI” COME PARTIGIANI: CI RISIAMO
C’è una bella canzone di De Gregori che recita pressapoco così: “Nessuno si senta escluso dalla storia, ma tutti sappiamo e non facciamo finta di dimenticarlo che la storia dà torto e dà ragione”. Questo per dire che l’ennesima proposta della destra al governo, l’ennesimo tentativo di equiparazione tra partigiani e combattenti della repubblichetta di Salò, che fa il paio con quella di abrogare la norma costituzionale che vieta la ricostituzione del partito fascista, è la solita penosa provocazione di una classe politica che, non solo non sa risolvere i problemi del presente, ma addirittura ha lo sfacciato ardire di voler riscrivere la storia per convenienza. Tentativo mai come oggi fuori luogo e fuori tempo, considerando gli esiti elettorali delle ultime settimane. C’è in questo Paese una sgangherata sarabanda che, legittimata proprio dalla politica al governo e riesumata dalle più cupe pieghe della società, crede di poter dare credibilità il fascismo attraverso proposte come queste, attraverso le quali si arriverebbe a riconoscere ad ipotetiche associazioni di ex combattenti fascisti, di poter maramaldeggiare in giro per l’Italia, promuovendo convegni e perchè no, entrando persino nelle scuole, a rivendicare il tanto rimpianto “orgoglio passato”.
Nel giorno della festa della Repubblica, nata dalla Resistenza e dall’antifascimo, tutto questo suona come una stonata fanfara, se riconoscessimo le tesi di questi perditempo, nei prossimi anni, questa potrebbe diventare la festa dei repubblichini. Costoro potranno anche strappare le pagine “sgradite” dai libri di testo, punire gli insegnati “che fanno propaganda”, quelli che magari consigliano la lettura di un testo di Gramsci, di Don Milani o di Gobetti. Potranno ripudiade “Bella Ciao” tutte le volte che viene intonata nel nostro Paese, ma questi invorniti di poca memoria se ne devono fare una ragione, una volta per tutte: nella pagina più nera della nostra storia, nessun errore di chi combatteva per liberare l’Italia dal nazi fascismo può essere minimamente paragonato all’orrore di chi per vent’anni ha schiavizzato l’Italia, sparando e torturando i propri connazionali in nome del fascismo.
Fino a prova contraria non è la Resistenza e tantomeno i comunisti che per la Liberazione dell’Italia hanno combattuto e sono morti, che devono fare i conti con la storia, ma piuttosto quanti che in nome del fascismo, ieri e oggi, credono di dare lezioni ingannevoli e a dir poco ridicole. (Alessandro Fontanesi)
Ora che il governo ha rinunciato al programma nucleare e dunque Filippi non ha più da cercare altri siti in cui collocare le scorie (ricordate la boutade dei gessi triassici alta valle del Secchia?) chissà quali altre sorprese ci riserberà l’ingegnere di Casina . (Antonio Zambonelli)



(Nicola Barbieri, Glauco Bertani, Alessandro Bonazzi, Alberto Campagnano, Annamaria Ghidoni, Claudio Ghiretti, Paolo Manicardi, Angela M.G. Nocera, Rosa Ruffini, Paolo Tadolini, Moreno Veronese )
Vogliamo andare direttamente al cuore del problema. Quanto avvenuto nel dopoguerra emiliano fu conseguenza della violenza che il fascismo esercitò sulle popolazioni rurali a sostegno dei proprietari e dei latifondisti. Lo squadrismo insanguinò le nostre terre aumentando la ferocia del fascismo di Salò. La fine della guerra non impedì un prosieguo di vendette e violenze, chi aveva lanciato la sfida pagava il conto della rabbia contadina. Da una guerra partigiana «gloriosa e spietata» come quella che visse l’Italia del 1943-45, non si poteva uscire, come ha scritto Miriam Mafai, «solo per disposizione della Gazzetta Ufficiale … Le vicende della storia non possono venire scandite con una regolarità da orario ferroviario». È un fatto indiscutibile che nessun revisionista potrà mai cancellare o modificare. Nella guerra tra fascismo e antifascismo c’è stata un’azione e una reazione. C’è stata un’azione liberticida, violenta, dittatoriale, squadrista da parte dei fascisti nei confronti del popolo italiano, che è diventata virulenta e assassina nei confronti degli antifascisti, a cui è seguita una reazione politica esemplare dalla quale è nata la nuova Italia democratica e repubblicana. Stupirsi che dall’azione violenta, portatrice di distruzioni e morte, non possano nascere reazioni di vendetta in alcuni fra coloro che quella violenza hanno subito, non è ingenuo: è del tutto strumentale. Gli autori di quelle reazioni di vendetta hanno commesso dei delitti, la cui responsabilità però è individuale, non ne può rispondere la Resistenza antifascista come reazione politica di un popolo che insorge contro il giogo impostogli da un regime ingiusto, razzista, violento e dittatoriale. E la reazione di vendetta alla violenza fascista è stata contenuta grazie al lavoro degli organismi partigiani e del PCI, che nel suo complesso non ha alimentato quel clima di violenza. Togliatti a Reggio fu chiaro. Anzi, ad esempio, dopo l’attentato che subì nel luglio 1948, fu il partito stesso a frenare qualsiasi reazione violenta. La nostra certezza, allora, è che si voglia riabilitare la cultura fascista nel suo complesso. Già altri episodi come la denuncia a Giacomo Notari (presidente Anpi) fanno capire dove si voglia andare a parare. E’ l’ANPI che si vuole colpire e ciò che rappresenta per la memoria nazionale. Sul particolare fatto da cui è scaturita l’ennesima campagna denigratoria e cioè durante il dibattito FestaReggio del 22 agosto scorso, nel corso del quale il presidente di Istoreco ha sostenuto in qualche misura alcune posizioni di Pansa sui fatti del dopoguerra, noi riteniamo che fosse prevedibile che quelle parole avrebbero aperto un varco vistoso al revisionismo di destra. Infatti subito si è dato voce a storici dichiaratamente fascisti e a voci la cui autorevolezza lascia parecchi dubbi. Vogliamo ricordare che sono anni che a Reggio si studiano seriamente quelle vicende. Riteniamo anche giusto valorizzare le figure, forse messe in ombra, di partigiani cattolici anticomunisti (senza dimenticare, per comprendere la complessità delle cose di cui si sta parlando, che Giorgio Morelli era isolato all’interno delle stesse forze politiche cattoliche). Come iscritti al PD crediamo che il partito e tutti i democratici debbano marcare la distanza dalle operazioni revisioniste alla Pansa, prima di tutto per giustizia ed equità, poi anche perché tutto questo mira a cancellare le nostre radici che nascono dalla Resistenza e dalla Costituzione. Riteniamo che dalla storia dei ‘comunisti’ all’attualità del PD ci sia un percorso intellettuale ineccepibile. Forzare certe angolature della storia ci sembra sbagliato. Non si può buttare, per usare un luogo comune, il bambino con l’acqua sporca. Se qualcuno pensa che eliminando quel passato si rafforzi il presente si sbaglia di grosso. La destra attuale non ha tagliato i fili con la sua storia e foraggia chi li rafforza. Al contrario noi siamo pronti al post moderno. Ne va della nostra storia e della nostra memoria. Cioè del nostro presente e del nostro futuro. (Anna Salsi) Essendo stata assente alla serata di FestaReggio in cui ha preso la parola Mirco Carattieri, leggo sulla Gazzetta del 24 agosto le parole di Carattieri “Condanno tutte le omertà che Pansa denuncia nei suoi libri. Gli omicidi politici del dopoguerra sono da esecrare, come sono da esecrare certi comportamenti dell’Anpi” …”I libri di Pansa hanno rilanciato sul piano nazionale episodi che prima erano appannaggio di pochi. Io condanno tutte le omertà che Pansa denuncia durante le sue ricerche e condanno anche le opposizioni fisiche alle presentazioni dei suoi libri”… “Smettiamola con le accuse strumentali: Ci sono omicidi politici del dopoguerra che sono da esecrare come sono da esecrare certi comportamenti dell’Anpi”. Da una settimana c’è un crescendo di articoli su tutti i giornali, dove si può leggere sulla “Centrale del terrore nel dopoguerra” sui “crimini del PCI” articoli di un anticomunismo violento e feroce, rimproveri dell’ALPI all’ANPI di Morini, stimoli alla riabilitazione di personaggi considerati ingiustamente castigati, richieste di Mauro del Bue di fare luce su Facio e Farri e su episodi dei Cervi, Sarzi ecc., promesse di Nando Rinaldi di fare luce sui delitti ed una sconfessione per il precedente gruppo dirigente di Istoreco, il tutto condito dal nuovissimo “Chi sa parli “ di Otello Montanari. Solamente due persone hanno levato la loro voce con articoli documentati e contestualizzazioni del periodo del dopoguerra: Alessandro Fontanesi e Ugo Benassi per riportare riflessioni sulla Resistenza di carattere unitario e spegnere le polemiche. Si è partorito un comunicato con pretesa di unitarietà quando l’ALPI si è già espressa per conto suo, comunicato vuoto, inefficace e fuori tempo, per contrastare un fiume di polemica che ricalca lo stile della più aspra guerra fredda e del nuovo fascismo che avanza su vari fronti. Non è uscito il messaggio secondo cui gli episodi isolati del dopoguerra sono stati l’effetto delle violenze fasciste perpetrate a suon di olio di ricino, umiliazioni, torture, delitti e crimini su chi difendeva la libertà. Ritengo che Mirco Carattieri abbia sbagliato accettando di rispondere ad una domanda fuori tema postagli quella serata, come un modo troppo facile di fare la storia, senza contestualizzare che innesca, nel delicato contesto politico odierno, una polemica accesissima, non solo di destra, ma di tutti coloro che sono stati e sono tutt’ora anticomunisti. Sappiamo che la storia non è mai asettica e viene sempre influenzata dagli storici che la lavorano. I nuovi dirigenti di Istoreco, hanno inaugurato uno stile che è fuori dalla tradizione del nostro ambiente: a mio parere rasenta il revisionismo e ricalca l’anticomunismo. Inoltre un errore di Carattieri consiste nel non riconoscere che egli ricopre un ruolo di dirigente di una istituzione e non può giocare in veste di politico e di tecnico contemporaneamente, perché si crea incompatibilità, investendo in questo caso non solo l’Istoreco, ma anche le Associazioni partigiane ed il PCI di quel tempo. Ciò che mi fa male è il senso di impotenza che circonda l’Anpi, per gli attacchi violenti che le vengono sferrati da ogni parte, per la mancanza di reazione e di risposta, per la debolezza che oggi dimostra, per le sollecitazioni indignate di partigiani e di Sezioni che protestano a vuoto. Chiedo più collegialità negli organi, più tempestività nel fare politica, perché oggi c’è bisogno delle capacità e delle risorse di tutti i democratici che vogliono dare una mano. Non posso accettare questa polemica distruttiva avviata da Carattieri, in nome dei miei genitori: Salsi Carlo “Paolino” partigiano, torturato, messo in galera e in confino, processato poi Commissario Politico in montagna e Rossi Zelina “Anna” una delle più citate e valorose staffette della Resistenza. Il loro sacrificio non può cadere nel nulla perché uno “storicista supertecnico” pretende di cambiare la storia e gettando pubblicamente ripetute accuse all’Anpi. (Bigi Giovanni, Fontanesi Denis, Manzotti Maria, Orlandini Enrico, Toschi Luigi) La scandalosa ed inaccettabile escalation del solito, falso e tendenzioso “revisionismo” riapparso in seguito alle dichiarazioni pubbliche del Presidente di ISTORECO Mirco Carrettieri alla festa provinciale del PD, nonchè la riscoperta del “chi sa parli” e la altrettanto pretestuosa ed indegna polemica sul Comandante “Eros” e sui delitti del dopoguerra, ci induce, quali iscritti all’ANPI, a richiedere alla ns. Presidenza di prendere una forte e decisa posizione in merito, alfine di circoscrivere definitivamente le continue illazioni e denigrazioni nei confronti della Resistenza prima di tutto ed in questo caso, anche nei confronti dell’ANPI. Tale risposta è a nostro avviso indispensabile, non solo verso i mezzi della stampa, i quali (più per scoop editoriale che per autentica ricerca di verità storica) cavalcano qualsiasi notizia “utile” per affermare che c’è stata una Resistenza cattolica buona ed una comunista cattiva; ma anche verso l’opinione pubblica. In particolare quella giovanile che, troppo lontana da quegli eventi, può essere negativamente condizionata da una fuorviante e falsamente tendenziosa informazione. E’ responsabilità di tutti noi evitare che ciò accada, riaffermando ora e per il futuro, con costante continuità, gli intramontabili e più che mai attuali valori che sono nel dna dell’Anpi e della Costituzione italiana. Riteniamo quindi, per i motivi appena citati, sia necessario affermare alcuni punti operativi che permettano immediatamente di affrontare, non solo i recenti attacchi dal sapore più o meno fascista, ma soprattutto di creare con essi le basi per nuove strategie di comunicazione verso l’esterno, sia politicamente che socialmente. In dettaglio: 1) Qualsiasi risposta ufficiale che coinvolga la Presidenza, riteniamo debba essere sviluppata in modo unitario e non lasciata alla sola responsabilità del Presidente. 2) Chiarire la posizione di ISTORECO nei confronti dell’ANPI, con i mezzi ritenuti più opportuni dalla Presidenza stessa. 3) Considerando la valenza degli ultimi accadimenti editoriali, è a nostro avviso indispensabile investire l’ANPI nazionale di una responsabilità che va oltre il nostro territorio. Pensiamo che Reggio Emilia meriti questa attenzione, alla luce di quanto nella storia ha pagato per conquistare e mantenere la democrazia nel nostro Paese. Attenzione, se si sgretola il tessuto sociale profondamente democratico e antifascista che da sempre caratterizza la nostra terra reggiana, ne perderebbe non solo l’ANPI, ma sicuramente tutto l’arco dei partiti politici che si riconoscono nei valori dell’antifascismo, della Resistenza e della Costituzione. 4) Costituire un futuro gruppo di lavoro, coordinato con la Presidenza, che si occupi della comunicazione, in modo di essere non solamente pronti a dare risposte chiare ed immediate, proprio verso qualsiasi accadimento che coinvolga l’associazione, ma diventi organo costantemente aggiornato , propositivo e divulgativo nell’affermazione dei valori che l’ANPI rappresenta. Disponibili per sviluppare insieme i temi soprascritti, rimaniamo a disposizione dell’Associazione.



(Alessandro Fontanesi) – La versione “edulcorata” della storica battaglia di Fabbrico del 27 febbraio 1945, apparsa sulle pagine del Giornale di Reggio di lunedì 28 febbraio, presenta parecchi difetti. Uno palesemente mistificatorio, uno sfacciatamente provocatorio per quanti diedero la vita quel giorno ed uno di sostanziale forma, perchè manca di quella imparzialità necessaria quando si affrontano argomenti storici come questo, visto che la narrazione è affidata proprio a quei personaggi che da oltre un decennio presenziano al corteo partigiano con i vessilli del fascismo e della repubblichetta di Salò. Simboli di triste memoria, simboli vergognosi, condannati dalla storia, simboli sconfitti a Fabbrico 66 anni fa, simboli sconfitti dalla storia; per cui quale credibilità può avere un simile resoconto dei fatti se a proporlo sono proprio quelli che a distanza di tutti questi anni rivendicano con tanto orgoglio il passato fascista, per giunta sovvertendo i ruoli della storia? Nella versione “modernizzatrice” infatti, si parla di “violenza partigiana” a cui rispose una “follia tutta repubblichina”, errore macroscopico, tuttavia cercato proprio per banalizzare quel passato, poichè se davvero si vuol essere “storici” e parlare di violenza partigiana, allora bisogna essere altrettanto onesti nel dire che quella dei partigiani fu la conseguenza naturale alla follia dei repubblichini, non viceversa. I 21 ostaggi fabbricesi non li volevano trucidare i partigiani, ma i fascisti. La guerra non se la inventarono i partigiani, fu voluta da Mussolini e dai fascisti, dai quali presero esempio persino i nazisti. Il fascismo è nato in Italia, a qualcuno urta ricordarlo ma è così. Fare gli storici non è un mestiere semplice, non bastano due righe ogni tanto su qualche giornale per esser credibili. Andiamo avanti. Se gli assertori della “nuova storia” hanno davvero ragione, allora perchè all’annuale festa di Fabbrico, voluta per delibera del Presidente della Repubblica, altro che patrono, partecipa unito tutto il paese in massa da 66 anni? Il corteo che si snoda da via Roma fino al monumento dei caduti, è forse un dettaglio per la nuova storia da raccontare? O è la naturale conseguenza di quella giornata di lotta? Anche allora il paese, come mai si era visto, si schierò compatto al fianco dei partigiani, adoperandosi per salvare i concittadini e per proteggere i partigiani feriti. I “modernizzatori” capisco siano accecati dallo stesso odio di allora, ma dovrebbero domandarsi il perchè di questo, la storia è cosa seria e non un mezzuccio per tornaconti politici. La guerra è finita, i caduti a Fabbrico, tanto perchè si vuol essere “puntigliosi”, non furono solo italiani, lo erano i partigiani, lo erano i repubblichini fascisti, non erano italiani i tedechi, ovviamente, con i quali gli “italiani fascisti” per ben 20 mesi si prodigarono per assassinare, per trucidare, per torturare tanti italiani inermi, come era loro intenzione fare a Fabbrico, come avvenne a Cervarolo, tanto per non allontanarsi troppo dalla nostra terra e non basterà certo una benedizione per cambiare quella storia. Non si può confondere il martirio del partigiano diciannovenne Luigi Bosatelli, caduto a Fabbrico quel 27 Febbraio, con le “eroiche gesta” dei camerati neri al soldo di Hitler.